Storia della stampa. Le origini e il Quattrocento

Un'antica stamperia

Un’antica stamperia.

STORIA DELLA STAMPA

Le origini e il Quattrocento

Un aumento della produzione libraria si registra già prima dell’avvento della stampa, per l’incidenza di due fattori fondamentali: l’introduzione della carta, importata dall’Oriente tramite gli arabi, e lo spostamento della produzione dai centri monastici alle città sede di università. Bologna ne è il caso più celebre: sotto i portici del Pavaglione si collocano gli stationarii, che producono e vendono Codices. A loro

si deve un primo processo di moltiplicazione e standardizzazione del libro: il Codex è suddiviso in fascicoli separati, detti peciae, commissionati ai vari amanuensi un pezzo alla volta, rendendo la produzione più rapida e i costi più contenuti. A questo si affianca un’espansione del mercato: non sono più solo i grandi centri ecclesiastici e universitari a commissionare i libri, ma anche tutto un nascente ceto borghese e mercantile. Da oggetto raro e prezioso il libro diviene strumento di lavoro, in uffici, tribunali, cancellerie: nuove finalità pratiche per cui la scrittura gotica, monumentale e puntuta, cui era stata affidata la produzione manoscritta nei centri monastici, diviene inadeguata. Si afferma una scrittura nuova, indicata come littera antiqua, in realtà trasposizione di una delle scritture più diffuse in epoca medievale, la carolina, assai più leggibile, con una tachigrafia ariosa ed elegante.

L’apparizione della stampa a caratteri mobili si colloca così in un universo che ha già subito trasformazioni importanti. Il dibattito attorno alla nascita di questo nuovo strumento è segnato dalla mancanza di una letteratura storico-critica coeva: si dispone unicamente del libro, dell’oggetto concreto. Due gli orientamenti prevalenti: alcuni storici sottolineano l’elemento di profonda rottura e la forte valenza politica (in particolare per l’utilizzo che della stampa ha fatto la riforma protestante); altri evidenziano l’aspetto di continuità tra il manoscritto e l’incunabolo, l’universo degli scribi e degli stationarii e quello degli stampatori. Entrambi gli approcci possono essere accolti per alcuni aspetti: è una rivoluzione dal punto di vista tecnico, per cui le nuove figure necessitano di una preparazione in larga parte estranea a chi si occupa del libro prima della stampa, provenendo dall’oreficeria, dalla fusione e lavorazione dei metalli. Ciò nonostante alcune delle vecchie professionalità continuano a giocare un ruolo importante, soprattutto a livello di finiture del libro (ad esempio miniatori e rubricatori). La continuità è evidente soprattutto nelle forme: il libro a stampa cerca di differenziarsi il meno possibile dal manoscritto nelle caratteristiche estetiche, di organizzazione del testo e delle immagini, e nonostante l’affermazione sempre più netta della stampa, il manoscritto continua a vivere a lungo un’esistenza parallela.

Anche le notizie intorno alla figura di Gutenberg sono fonte di discussione, tanto che si è potuta dubitare persino l’attribuzione della paternità dell’invenzione, rivendicata da stampatori tedeschi, boemi, italiani, olandesi. Certo è che negli anni 40 del Quattrocento in più parti in Europa si sta lavorando nella stessa direzione, Gutenberg non può considerarsi isolato. Tra i pochi dati certi sappiamo che si trova a Magonza tra il 1448 e il 1454, dove costituisce una Societas con Johann Fust, banchiere che gli garantisce un sostegno economico, e Peter Schöffer, calligrafo e incisore. Da questa società nasce la Bibbia a 42 linee, che messa in vendita a Francoforte nel 1455 suscita l’entusiasmo di Enea Silvio Piccolomini. Il raffinato umanista sembra non accorgersi che questa splendida Bibbia, che si può leggere “senza fatica e senza occhiali”, non è un manoscritto: tanta doveva essere stata la cura di Gutenberg nel riprodurne esattamente le caratteristiche. Nonostante la Societas abbia vita breve, nell’arco di un decennio la nuova tecnica comincia a diffondersi nelle varie città europee, grazie agli spostamenti dei collaboratori di Gutenberg e Schöffer.L’Italia è una delle mete privilegiate dei prototipografi tedeschi: due di loro, Arnold Pannartz e Konrad Sweynheym, raggiungono nel 1464 il monastero benedettino di Subiaco, già centro importante per la produzione di manoscritti. Si rivolgono però ai classici, non più ai testi liturgici: stampano il De oratore di Cicerone, il De divinis institutionibus di Lattanzio e il De civitate Dei di Sant’Agostino. Dall’isolamento di Subiaco decidono poi di trasferirsi a Roma, avviando una collaborazione intensa con il circolo degli umanisti: oltre che con Giovanni Andrea Bussi, vescovo e umanista, sono probabili rapporti col cardinale Bessarione, al momento alla corte pontificia, prima di trasferirsi a Venezia cui dona la sua ricca biblioteca. A Venezia i primi stampatori compaiono solo nel 1469, ma la nuova arte ha uno sviluppo rapidissimo e in breve la Serenissima è il centro più importante d’Europa per il libro a stampa. Oltre a Venezia e Roma la stampa si diffonde nelle altre città italiane, ognuna delle quali viene sviluppando le proprie peculiarità: se Venezia si caratterizza soprattutto per i testi filosofici e di diritto, Milano e Firenze per le opere religiose e letterarie, Bologna per le opere di diritto e quelle scientifiche, in particolare di astronomia.

Fra Cinquecento e Seicento

Nella prima metà del Cinquecento Venezia produce quasi la metà dei libri stampati in Italia, ed è il più importante centro europeo del libro a stampa. Proprio a Venezia, agli inizi del secolo (1501), Aldo Manuzio pubblica i suoi enchiridia (libri tascabili), classici latini senza note e senza commento, realizzati con il nuovo carattere corsivo di Francesco Grifo: ottiene un enorme successo, in tutto il continente. Ma la Serenissima non ospita solo la tipografia di Manuzio: fra le dinastie di editori-librai attivi in questo periodo basta ricordare i Giunti (celebri per l’editoria religiosa e scientifica, nonché per avere creato una rete di vendita davvero europea, dalla Spagna alla Polonia) e i Giolito (“specializzati” nella produzione di libri in volgare, si avvalgono della collaborazione di molti autori). Il successo della città veneta è dovuto, certamente, alla sua posizione geografica, che la rende un nodo centrale dei commerci fra Europa e Medio Oriente: non a caso, accanto ai libri in latino e in volgare si stampano anche testi in ebraico, armeno e glagolitico, e negli anni Trenta Alessandro Paganino realizza il Corano in arabo (senza successo). Però, un altro elemento che favorisce lo sviluppo della stampa a Venezia è l’intraprendenza di alcune famiglie patrizie, che investono i propri capitali a sostegno dell’attività editoriale. Nel Cinquecento, infatti, accanto ai tanti piccoli tipografi sempre sull’orlo del fallimento, si affermano le prime grandi imprese editoriali: sono aziende nel senso moderno del termine, con numerosi dipendenti e progetti editoriali precisi (a volte anche troppo ambiziosi), si servono dell’opera dei migliori incisori di caratteri (Grifo per Manuzio, Garamond per Estienne, Granjon per Plantin) e si avvalgono dell’aiuto di famosi eruditi del loro tempo (ad esempio Erasmo, che collabora con Manuzio); per questi motivi, com’è ovvio, necessitano anche di cospicui finanziamenti.Inoltre, mentre i luoghi di produzione dei libri a stampa sviluppano una fisionomia più precisa, il libro stesso assume un aspetto più stabile: se nei manoscritti, in genere, niente permetteva di riconoscere l’autore, nel libro stampato si diffonde l’utilizzo del frontespizio, sul quale viene riportato, a grandi lettere, il nome dell’autore, quello del dedicatario del libro e quello dello stampatore: i diversi attori del processo di produzione acquistano, progressivamente, una maggiore consapevolezza del proprio ruolo. In seguito a ciò, autori e stampatori cercano di tutelare l’opera del proprio ingegno, per evitare che possa essere riprodotta senza il loro consenso: si ricorre, così, a strumenti quali la patente di privilegio, che conferisce all’autore o allo stampatore il diritto esclusivo di stampa e di vendita di un libro per un certo numero di anni (variabile a seconda dei casi); questo strumento di protezione, adottato già nel Quattrocento, nel Cinquecento diventa una pratica di uso comune. La patente di privilegio, inoltre, può riguardare anche più di un libro (nel 1505, in Polonia, il tipografo Johann Haller ottiene il monopolio su tutti i libri che pubblica), oppure il tipo di caratteri (Manuzio, infatti, chiede un privilegio a protezione dei caratteri del Grifo). Il privilegio, però, ha valore solo nel territorio controllato dall’autorità che lo ha concesso, e questo ne limita fortemente l’efficacia: solo il papa, infatti, rilascia privilegi che teoricamente hanno un valore universale, ma anche in questi casi l’effettivo rispetto del provvedimento è legato all’influenza del pontefice sui singoli governi. Gli autori, allora, devono fare ricorso a più privilegi per la stessa opera, come fa Ariosto, che, per tutelare l’Orlando furioso, si rivolge al papa, al sovrano francese e alla Serenissima: però, nonostante questi accorgimenti, non mancano edizioni pirata del suo capolavoro. La stampa, infine, non è estranea al grande fenomeno della Riforma: Lutero la considera un dono divino e se ne serve, assieme all’uso del volgare, per favorire la diffusione della sua dottrina. Attorno a Wittenberg e alle città tedesche più coinvolte dal movimento luterano si sviluppano numerose stamperie, attirate dalla possibilità di pubblicare gli scritti del monaco agostiniano e degli altri riformatori. Le persone in grado di leggere e scrivere sono ancora un’esigua minoranza, ma le opere in volgare, come le traduzioni della Bibbia, se lette ad alta voce, in sedute collettive, raggiungono anche il pubblico più analfabeta. Inoltre, accanto alle pubblicazioni più ricche, ci sono moltissimi fogli volanti a basso costo, in quarto (naturalmente in volgare), spesso accompagnati da xilografie caricaturali, aventi per oggetto gli avversari di Lutero; anche questa grande mole di pubblicazioni di propaganda passa per le stamperie. Uno dei più grandi stampatori del secolo, Christophe Plantin di Anversa, mantiene un atteggiamento ambiguo nei confronti della Riforma: infatti, pur essendo simpatizzante di dottrine non cattoliche, è anche protetto del cattolicissimo Filippo II di Spagna, e divide la sua produzione fra pubblicazioni cattoliche e pubblicazioni eterodosse. I libri dei riformatori trasportano le idee luterane in tutta Europa, ma in paesi cattolici come l’Italia la loro circolazione è difficile e avviene clandestinamente, a causa della dura opposizione del papato.Dal momento che il libro, in particolare il libro in volgare, era stato tanto utile alla causa della Riforma, la reazione della Chiesa romana si attua anche attraverso una dura censura, per controllare e limitare la diffusione, attraverso i libri a stampa, di idee considerate eretiche e pericolose. L’istituzione dell’Indice dei libri proibiti, ad opera di Paolo IV, è l’aspetto più evidente dell’atteggiamento della Chiesa romana, che vieta anche le traduzioni della Bibbia: solo il catechismo viene stampato in volgare, perché i curati lo leggano ai fedeli, divulgando così le idee conciliari. La censura, però, non segue criteri precisi, ma si abbatte ogni anno su opere diverse, in un atteggiamento di generale diffidenza verso la lettura, vista come qualcosa di pericoloso, non adatto a tutti. Questa situazione non favorisce certo lo sviluppo della cultura, e così in Italia, dove il controllo della Chiesa romana è particolarmente stretto, si assiste a un progressivo isolamento dal resto del continente: gli editori veneziani, ad esempio, si adeguano alla censura, ripiegando su una produzione religiosa e cattolica, ma perdendo il primato europeo.Nonostante tutto, però, il libro conserva il suo grande potere di veicolo di idee nuove e rivoluzionarie, come dimostra, nel 1610, la vicenda del Sidereus Nuncius di Galileo. Il piccolo libretto, nel quale lo scienziato annuncia le sue prime sensazionali scoperte effettuate col cannocchiale, è in latino, lingua che lo rende comprensibile a tutti gli studiosi europei, e contiene immagini e istruzioni su come prepararsi un cannocchiale (il lettore, insomma, è invitato a ripetere le esperienze dello scienziato, verificandole di persona). Tirato in 550 copie, dopo una settimana è già esaurito e dopo soli tre anni ne compare un riassunto in Cina.Inoltre, come la maggior parte dei libri del Seicento, il Nuncius presenta un frontespizio ricco e articolato, contenente molte delle informazioni del colophon, come la data e la città, e una descrizione elogiativa del libro stesso. Anche la lunga dedica, piena di lodi e di preamboli, è in linea con il gusto barocco secentesco.Dal punto di vista tecnico, secondo una tendenza già manifestatasi nel Cinquecento, le illustrazioni realizzate attraverso la xilografia lasciano quasi del tutto il passo alle incisioni in rame (calcografia), che consentono disegni più elaborati e sontuosi, spesso di grandi dimensioni. Inoltre, parallelamente alle esplorazioni geografiche e allo sviluppo della navigazione, si pubblicano grandi atlanti a colori, come il celebre Ortelius, ma già nel Cinquecento il geografo fiammingo Gerard Mercator aveva dato un nuovo impulso alla cartografia e alla realizzazione di libri di carte geografiche.Infine, comincia a diffondersi il genere del romanzo: riservato alle classi alte, è di natura mitologica o fantasiosa, oppure descrive le passioni nel mondo aristocratico; è di piccolo formato, e proprio libri di piccolo formato (12°, 16°, 24°), che hanno costi di produzione ridotti, costituiscono la fortuna dei più grandi editori del secolo, gli olandesi Elzevier.

Il Settecento

Nel corso del XVIII secolo la stampa si afferma saldamente in Europa e si diffonde anche in nuove regioni, come la Russia e l’America, dove nel 1772 sorge la prima fonderia di caratteri del nuovo continente. Il numero delle pubblicazioni aumenta, come testimoniano i cataloghi della Fiera di Lipsia, nuovo centro del commercio librario: da 1384 titoli nel 1765 si passa infatti a 3906 nel 1800. A questo aumento della produzione corrisponde un allargamento del pubblico dei lettori: grazie a una più ampia scolarizzazione e alla diffusione delle biblioteche circolanti la lettura conquista nuove fasce di pubblico, in buona parte femminile. All’allargamento del mercato delle pubblicazioni a stampa si accompagna una ridefinizione delle figure che operano nell’editoria. Risale al 1709 la prima legge che riconosce all’autore una proprietà intellettuale sulla propria opera: il Copyright Act, emanato in Inghilterra durante il regno della regina Anna, accorda all’autore – e non più allo stampatore come accadeva con i privilegi – un’esclusiva di 21 anni. L’esempio inglese rimane a lungo isolato: nel 1777 in Francia viene emanato un decreto in cui si riconosce all’autore un privilegio decennale ma è solo con le leggi rivoluzionarie del 1791 e del 1793 che si giunge a un pieno riconoscimento della proprietà intellettuale. In Italia un primo decreto viene emanato dal governo rivoluzionario piemontese nel 1799, seguito da una legge della Repubblica Cisalpina nel 1801. Per tutto il Settecento l’Inghilterra costituisce dunque un’eccezione: mentre Defoe e Richardson vivono della propria penna, nel resto d’Europa gli autori operano in condizioni precarie. L’istituto del patronato è sempre meno diffuso – come testimoniano le lettere di dedica in apertura alle pubblicazioni – e non si è ancora affermato quello della proprietà intellettuale; gli autori sono spesso costretti ad aspre trattative con gli stampatori per ottenere compensi, quando non addirittura a farsi essi stessi stampatori delle proprie opere. Nel corso del Settecento si assiste anche a una graduale separazione fra stampatore, editore e libraio; accanto a tipografi puri e a librai autentici sopravvivono però figure ibride che ricercano una maggiore solidità economica attraverso la combinazione di più mestieri. Oltre agli autori che si fanno editori, sono infatti frequenti i casi di tipografi che stampano a proprie spese e, con maggior fortuna, di librai che diventano editori. Diverse realtà coesistono nel panorama editoriale del tempo: accanto ai Remondini di Bassano, che impiegano oltre 500 uomini, 20 torchi da stampa e 36 per le incisioni, sopravvivono piccole tipografie che annoverano un solo torchio. Ma la Società Tipografica di Neuchâtel, in Svizzera, produce cinquecento edizioni in venti anni servendosi di solo quattro macchine tipografiche, e tra queste edizioni figura anche una ristampa dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, senza dubbio la più importante impresa editoriale del secolo. Il Settecento, però, non è stato solo il secolo dei philosophes: una larga parte della produzione editoriale è infatti riconducibile a quella letteratura popolare di piccolo formato diffusa da venditori ambulanti che trova l’espressione più compiuta nella Bibliothèque bleue di Troyes. Accanto alle imprese private operano poi le stamperie reali, ducali o granducali, organiche al potere e avulse dalle leggi del mercato, ma non per questo trascurabili. È nella stamperia ducale di Parma, ad esempio, che lavora Giovanbattista Bodoni, la figura più illustre della tipografia italiana del Settecento. Con Bodoni le linee sobrie e armoniose del neoclassicismo approdano al libro a stampa: vengono introdotti nuovi caratteri, ispirati a rigorose proporzioni geometriche, e i frontespizi si alleggeriscono della ridondanza che aveva caratterizzato il secolo precedente. Mentre lo stile tipografico evolve sensibilmente, la tecnologia della stampa non conosce innovazioni sino alla fine del secolo, quando Aloys Senefelder introduce la litografia (1796) e Nicolas Louis Robert, nella cartiera di proprietà degli stampatori parigini Didot, costruisce la “macchina continua” (1798), con la quale diviene possibile fabbricare un nastro continuo di carta e decuplicare in tal modo la velocità di produzione. Nel frattempo, in alternativa agli stracci, costosi e difficili da reperire, comincia a diffondersi la carta a base di pasta di legno.

L’Ottocento

Il XIX secolo è segnato dallo sviluppo tecnologico della tipografia, e dalla conseguente nascita dell’industria editoriale vera e propria. I primi progressi sono dell’inizio del secolo, quando comincia a diffondersi la stereotipia, cioè il procedimento di riproduzione della forma della pagina composta mediante calco su lastra metallica. Tuttavia la stampa avviene ancora attraverso una pressione piana. La prima pressa piano-cilindrica è realizzata da Friedrich Koenig, e messa in moto nella stamperia del «Times» di Londra nel 1814; essa permette di aumentare notevolmente la capacità di stampa, quadruplicando la produzione oraria. Pochi anni dopo, nel 1828, viene introdotta la macchina “a quattro cilindri” costruita da Applegath e Cowper sempre per il «Times», mentre la rotativa, in grado di stampare contemporaneamente in bianca e volta un nastro continuo di carta, è della metà del secolo. Nello stesso periodo inizia la produzione industriale della carta e prendono il via i primi esperimenti di composizione meccanica che portano, alla realizzazione della Linotype, nel 1886, e della Monotype, nel 1889. Questa serie di innovazioni, che segna la fine dell’antico regime tipografico, determina, negli anni ’40 dell’Ottocento, il passaggio ad un sistema industriale di produzione degli stampati. Ciò permette agli editori di abbassare i costi e di raggiungere il pubblico più vasto che ha iniziato a formarsi a seguito dello sviluppo economico e dell’urbanizzazione. In Europa, la seconda metà dell’Ottocento vede così la nascita delle edizioni economiche: la «Railway Library» di Routledge in Inghilterra, la «Bibliothéque des Chemins de Fer» in Francia, la collana «Reclam» in Germania. Tuttavia, l’aumento dei lettori aveva già determinato l’emergere di un secondo fenomeno: quello dei libri che hanno un successo che può essere definito di massa, i cosiddetti best sellers. Nel 1814 il Corsair di Byron vende 10.000 copie, negli anni successivi, la serie completa delle Waverley Novels di Walter Scott vende quasi 80.000 copie. In Francia le opere di Verne vedono decine di migliaia di copie e negli Stati Uniti, quando La capanna dello zio Tom viene stampato in volume, dopo essere stato pubblicato a puntate tra il 1851 e il 1852, vende subito 100.000 copie (300.000 in edizione economica). A metà dell’Ottocento nasce anche quello che può essere identificato come un nuovo genere editoriale: il feuilleton, cioè il romanzo che non solo vende, e ha ricadute positive sulla diffusione dei giornali, ma che è scritto con il preciso scopo di vendere molto. In Italia, i primi tentativi di rivolgersi all’emergente mercato di massa sono realizzati dalla ditta di Giuseppe Pomba, che tra il 1828 e il 1832 dà alle stampe la «Biblioteca popolare». Questa collana, che offre in una veste tipografica modesta le opere classiche della tradizione letteraria italiana, greca e latina, parte con una tiratura iniziale piuttosto ridotta, ma ben presto raggiunge la cifra record per quei tempi di 10.000 copie. Per sostenere questi livelli produttivi, Pomba è costretto a dotare la sua azienda delle più moderne macchine per la stampa, tuttavia il contesto in cui si trova ad operare è ancora fortemente arretrato. Il mercato editoriale italiano è infatti condizionato dalla censura e dall’esistenza dei privilegi, e anche quando il principio della libertà di stampa viene sancito dagli statuti (dopo il biennio rivoluzionario 1848-49) esso non viene in realtà tutelato da alcuna legge. Continuano inoltre a sussistere dazi doganali che impediscono lo scambio librario, e mancano norme giuridiche che possano tutelare la proprietà editoriale e il diritto d’autore al di fuori dei confini dei singoli stati che formano la penisola.Dopo l’Unità diversi fattori portano ad un forte incremento della produzione libraria. In primo luogo l’estensione della scolarizzazione e la diminuzione dell’analfabetismo; in secondo luogo il costante aumento del pubblico femminile, che tende a consumare le opere di un folto gruppo di scrittrici che si vanno affermando (da Neera a Cordelia, da Jolanda a Emma); quindi la nascita di scuole tecniche, che necessitano di testi di studio adeguati; infine il diffondersi delle biblioteche popolari circolanti. Questa situazione porta alla nascita di nuove collane destinate a soddisfare i bisogni di apprendimento e di svago delle nuove fasce di lettori. Si affermano così i generi di consumo come il romanzo d’appendice, il romanzo sociale e quello femminile, le opere educative destinate ai ceti operai, e i manuali tecnico-scientifici.Lo sviluppo dell’editoria non avviene però in modo uniforme, e si realizza soprattutto in alcune città del Nord e del Centro, come Milano, Torino, Firenze e Roma. A Torino, nel 1854, l’impresa editoriale di Giuseppe Pomba e dei suoi successori, si unisce con la Tipografia sociale, formando la società per azioni Unione Tipografico-Editrice Torinese (UTET). Si tratta di una ditta altamente meccanicizzata, che riunifica l’attività tipografica e quella editoriale, e che ben presto si specializza nel campo delle discipline economiche e giuridiche. È però a Milano che si affermano i due maggiori editori-tipografi dell’epoca: Sonzogno e Treves.Edoardo Sonzogno inizia la propria attività nel 1861, dando vita a un’editoria che si rivolge ad un pubblico rimasto sino ad allora estraneo alla lettura: la piccola borghesia e i ceti operai cittadini. La sua produzione si concentra quindi sulla stampa periodica, soprattutto illustrata, e sul romanzo popolare. In particolare, la “Biblioteca romantica illustrata”, che esordisce nel 1866, si orienta alla pubblicazione di narrativa contemporanea e di autori stranieri, soprattutto francesi: le opere scelte per il suo esordio sono Nostra signora di Parigi di Victor Hugo, Il conte di Montecristo, I tre moschettieri, Il visconte di Bragellonne e la Regina Margot di Alexandre Dumas. Si tratta di romanzi già pubblicati in appendice sul quotidiano di Sonzogno, “Il Secolo”, e messi in vendita a prezzi popolari. Un’altra collana di Sonzogno, la “Biblioteca romantica economica”, nel 1881 conta già più di 150 titoli ed è caratterizzata dalla persistente presenza di autori italiani con romanzi storici, romanzi a sfondo sociale e feuilleton. Con le collane di Sonzogno il romanzo d’appendice trionfa così anche in Italia. Emilio Treves, che fonda la propria impresa nello stesso anno di Sonzogno, propone un modello di editoria più colta. La sua produzione si indirizza alla borghesia acculturata, pubblicando autori italiani come Verga e De Amicis, il quale sforna best sellers come Cuore (1886), che in tre anni raggiunge la 72a edizione, e Vita militare, che in una settimana vende 5000 copie e in pochi anni raggiunge le 70.000.

FONTE: http://www.storiadellastampa.unibo.it/colophon.html

 

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